Lessico e lingua (1941)

«L’Italia che scrive», a. XXIV, n. 12, Roma, dicembre 1941, pp. 358-359.

Lessico e lingua

La coscienza linguistica di uno scrittore coincide in senso assoluto con la sua stessa coscienza creativa ed è ovvio che, anche se lo scrittore è, non diremo Verga, ma Svevo, la sua lingua è a suo modo perfetta in quanto esprima la sua anima artistica, in quanto sia tutt’uno con la sua ispirazione viva, esistente. Mentre la lingua di tanti scrittori commerciali nella sua apparenza linda e usuale non esiste, da un punto di vista assoluto, perché non vi esiste dentro un’ispirazione, una vita estetica: non esiste la sua eternità e quindi neppure la sua effimera comparsa. Sta di fatto però che il letterato (e parliamo soprattutto del letterato contemporaneo) prova continuamente, alla luce della sua ispirazione, il rapporto tra la propria lingua in continuo divenire e la lingua di cui si è servita la tradizione, la lingua della sua comunità tradizionale. E se in certo senso esiste una lingua italiana di Verga, una del Manzoni, una del D’Annunzio, una di Cecchi, in cui saranno potuti entrare motivi che non derivano da una rigida tradizione unitaria, ma anche da una piú vasta tradizione europea o di particolari tradizioni dialettali, occorre però storicamente precisare che mai può mancare una posizione dello scrittore di fronte ad una lingua organica e tradizionale. Quando l’Alfieri studia i classici e poi il toscano vivo di Siena e di Firenze e il Verga introduce nella sua lingua movimenti siciliani, mirano ambedue alla caratterizzazione della propria lingua, rispondendo il primo all’esigenza romantica del concreto nazionale, il secondo all’esigenza veristica del parlato e in fine alla loro piú profonda ispirazione; ma ambedue si trovano a fare i conti con una tradizione, di fronte ad una scelta, ad un riconoscimento. E tale scelta dello scrittore sarà soprattutto evidente rispetto al lessico, alle parole che egli non considererà mai come univoci dadi da costruzione, monete di esatto conio, ma come valori carichi di una tradizione che egli può rinnovare con nuove relazioni e nuove accentuazioni. Vi sono delle civiltà letterarie in cui la parola assume un valore piú isolato (si accenni a Pascoli, D’Annunzio, e piú in basso all’epoca deamicisiana), altre in cui la forza del discorso interno prevale sul gusto della parola a sé (per tutti si pensi all’Ariosto), ma in tutti gli scrittori la parola viene esaminata, il lessico viene studiato in vista della loro lingua: ci sarà chi fa intenzionalmente la lettura dei vocabolari, degli spogli linguistici, o chi piú genuinamente sentirà le parole venire dalla lingua viva e dal vivo degli autori letti ed amati. Tutti faranno questa scelta piú o meno istintivamente, piú o meno programmaticamente si formeranno il loro lessico, il loro tesoro di vocaboli (Wortschatz, dice appunto il tedesco).

Ecco dunque l’interesse che può provare un letterato (e qui non diciamo un filologo, uno scienziato in quanto tale: il quale del resto quanto piú umano tanto piú sentirà la lingua anche da scrittore) di fronte ad un vocabolario della lingua italiana. Un letterato (chi è formato a sentire le cose non in astratto limbo naturalistico, ma in una concreta sintesi espressiva) cercherà, specie in questo periodo in cui la cultura linguistica è diventata parte essenziale di quella storica, non tanto una norma (né è certo poco augurabile una norma dove questa non venga a schematizzare violentemente una materia piú ricca) o cruschevolmente la lingua di un particolare secolo, o delle gemme da adoperare, ma piú la lingua della tradizione nella sua storia: una specie di fiume sempre meno contenuto fino a dilagare nella possibilità del presente, nella libertà creativa che troverà però un principio generale di coerenza nella coscienza linguistica formata appunto sulla tradizione. Questo può essere il valore di un vocabolario moderno: non un illuministico strumento per «dire» le cose, per dare il nome a tutte le cose, per imprigionare le cose, né lo spoglio di un certo periodo esemplare oltre il quale ogni parola piú moderna sia eretica, ma come una trattazione per scorcio di storia del lessico.

Il recente Vocabolario della lingua italiana dell’Accademia, dovuto all’opera di Giulio Bertoni e dei suoi collaboratori, si presenta a noi con l’intenzione di rispondere a queste esigenze del letterato che cerca la parola non solo nel suo significato, nella sua precisione logica, ma piú nella sua storia, cioè nella sua origine etimologica e negli esempi di autori che la storicizzino, la confermino nella sua vitalità, e nella sua nobiltà, la rendano non un astratto segno, ma un elemento vivo della tradizione.

Chi si pone a leggere il 1° volume (A-C) di questa opera con l’atteggiamento descritto, trova appunto una prima e lecita distinzione stilistica (parola disusata, letteraria, popolare: e anzi non ci sarebbe dispiaciuta anche una maggiore cura di distinzione: cosí alla voce «abbriccare» non mi pare che l’esempio del Pulci e la citazione di forme simili a S. Sepolcro bastino a togliere quel misto di popolare e di disusato che era bene notare, e cosí per abbrustiare, abominando, all’accattolica ecc.), trova una ricerca etimologica, e spesso un’approssimazione della data di nascita della voce, trova soprattutto una ricchezza di esempi che può avere questi vantaggi piú evidenti: riprova della vita della parola e rinnovamento della parola, apporto originale degli autori al lessico. Si pensi a quest’ultimo proposito, alla voce «avvertire» dove compare la grande frase vichiana («Gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, ecc.») ad affermare una nuova nascita della parola carica di profondità filosofica e di intensità poetica che una definizione vocabolaristica non poteva neppure avvicinare. La parola deve venire offerta, dove è possibile, negli esempi che l’hanno o rinnovata, o confermata nella maniera piú intera, piú essenziale e nello stesso tempo additata dove è diventata preziosa per un particolare uso letterario, o dove ha mantenuto il suo sapore popolare. Gli esempi non possono dunque essere scelti a caso e anche per indicare il senso piú semplice, piú usuale della parola non si dovrebbe mai riportare uno scrittore qualunque, uno di quegli scrittori senza ispirazione che operano una assurda trasposizione della lingua cosí detta comune in lingua scritta, senza intenti artistici particolari come quelli di tutte le correnti veristiche addirittura di scrittura parlata: e anzi certe concessioni alla vita piú bolsa della parola sono poi negli esempi la condanna piú grave degli autori citati, il suggello della loro mediocrità. In genere nel nuovo Vocabolario gli esempi sono addotti con una spregiudicatezza di limiti cronologici non solo perché gli esempi di scrittori contemporanei offrono una convalida di vita attuale della parola (ma spesso estremamente letteraria), ma anche per una evidente accettazione della nostra letteratura contemporanea. Ma ciò che in questa lodevole larghezza alle testimonianze recenti fa avvertire il suo peso esagerato, è il predominio dannunziano: costatazione che ci porterebbe lontano in un discorso sulla letteratura contemporanea, sull’eredità dannunziana, in una specie di bilancio di «ciò che è vivo e ciò che è morto» nel fastoso regno dannunziano. Nessun autore ha tanto posto nel Vocabolario quanto D’Annunzio e questa irruzione eccessiva del suo lessico supera il valore di una testimonianza di voci vive della tradizione, dato che moltissimi dei vocaboli sono disusati e dal poeta abruzzese rinnovati nella sua inconfondibile cifra opulenta: addogare, albasia, alesione, alido, alitoso, amarore, amarulento, arente, bevace, conquisto, camangiare, ecc. ecc., tanto piú che alcuni come azzurrità, aracneo, aromale mancano del tutto anche nel Tommaseo. Predominio dannunziano che è poi anche predominio di una lingua estetizzante che sta tramontando di fronte a quella dei saggisti, a quella dei neorealisti, e che spesso è stata stravolta dalla sua decorazione composita ad elemento umoristico, bertoldesco. La ragione di questa presenza eccessiva (la cui sproporzione potrà venir meglio giudicata quando si sarà, a distanza di maggior tempo, definito il limite dell’esclusività dannunziana su certe parole o viceversa sarà finita qualsiasi forza di espansione del dannunzianesimo e sbiadito il suo impero lessicale) va certo trovata nella vicinanza cronologica di quel grande fenomeno letterario e nella sua enorme estensione nel lessico. La maggior parte di parole disusate sono rinverginate da un esempio di D’Annunzio in cui, come è arcinoto, il lessico aveva assunto una importanza morbosa, aveva formato la sua vera cultura dato che anche i classici erano diventati per lui quasi esclusivamente esempi lessicali, miniere di parole da scavare, isolare, ricondurre a centri suggestivi di nuovi incanti. Nel grande poeta quel gusto della parola trovava il suo impeto sensuale e profetico che poteva arrivare a trasvalorarlo, ma nella moda stilistica ne derivò una sterile retorica delle parole che il Vocabolario nella sua riproduzione della situazione linguistica contemporanea ha esageratamente registrato.

Per il lettore avveduto piú che le voci tecniche, condizionate dalla loro strumentalità, hanno rilievo, nella lettura del Vocabolario, le parole piú ricche di sensi e di storia, alle quali l’etimologia, l’origine, la datazione conferiscono una personalità, una vitalità espressiva che vibra nella mano di chi a volta a volta le rinnova con il suo impiego. Senza affatto avviare un giuoco di sottintesi nè ricerche di natura joyciana, la conoscenza della etimologia accresce non solo la consapevolezza storica della parola, ma la sua natura estetica, il lavorio di immaginazione, di analogia che l’ha formata: e fa d’altra parte sentire, accanto alla piú generale derivazione latina, la comunità romanza e poi gli apporti arabi, spagnuoli, francesi: il che significa indicare la nostra ricchezza di cultura organica ed aperta.

Gli esempi costituiscono però l’oggetto essenziale dell’interesse del lettore del Vocabolario. Gli esempi devono venir scelti tali da dare una scultura eterna della parola, esprimere la forza piú intera: cosí per «carne» (lussuria) quale migliore attestazione del verso dantesco: «chi nel diletto della carne involto...», o per «credibile» il verso ariostesco «forse era ver, ma non però credibile»? Gli esempi sono spesso quasi la vita della parola nella sua accezione piú piena, come quando la voce «affiliazione» è appoggiata ad un esempio di Mazzini, «alcedine» sorge dal verso di Undulna, l’«amor proprio», «arcano», ecc. ci si offrono nelle citazioni leopardiane. E, senza cadere in una ricerca leziosa, è bene che gli esempi rendano il carattere polisenso di un vocabolo: cosí per «ardere» Jacopone porterà il tono religioso, il Petrarca quello amoroso, il Foscolo quello di un ardore neoclassico, il Pascoli testimonierà il senso naturalistico di inaridire («tutti i fiori arse la brina...»). Questa preferenza concessa alla poesia (per «alpino» si cita il verso ariostesco: «sembra fra due montagne un vento alpino») potrebbe indurre a vedere in un simile lessico quasi un’antologia di spunti lirici, ma piú seriamente vi si cercherà la complessa prova della nostra lingua letteraria in cui la parola, anche una congiunzione o un avverbio, hanno una funzione non solamente strumentale, ma possibilità di rapporti musicali, di entità da accentuarsi poeticamente, come quando «allora» viene appoggiato sul celebre distico della morte di Zerbino: «E se pure avverrà che poi si deggia morire, allora il minor mal s’eleggia». Vi si cercherà il senso di una tradizione vasta e ferma, la voce di una umanità completa.

Il letterato chiederà dunque al vocabolario le parole nella loro ganga storica, nella loro precisione e nella loro ricchezza, chiederà un aiuto alla propria coscienza linguistica, alla consapevolezza del proprio lessico: quanto piú godrà di tale coscienza, tanto piú la sua volontà creativa si sentirà libera, magari barbarica, ma non facilona e zingaresca.